lunedì 4 giugno 2007

l'Acqua


Sarà colpa della retorica cinematografica: fatto sta che basta nominare con lo stesso fiato un quartiere popolare di New York e un idrante, e subito viene alla mente l’allegra baldoria di ragazzini per strada che si accalca con spintoni e urla intorno all’improvvisata doccia metropolitana. L’acqua, elemento aggregante. Almeno fino al sopraggiungere del braccio armato della legge, armato sì ma di avvitabulloni, che in breve rimette ordine.
Chiunque sia stato partecipe di manifestazioni movimentate sa bene che per disperdere una folla e raffreddarne i bollenti spiriti il poderoso getto di una pompa sa essere più efficace di un fumogeno. L’acqua, elemento disgregante. Noi ne abbiamo da sprecare, con le nostre fontane e fontanelle che meravigliano gli stranieri per bellezza e scarsa economia. “Ma è potabile?” mi chiede un’amica brasiliana che non si spiega come sia possibile lasciar scorrere tanto bendiddio con la minaccia di una siccità planetaria in agguato. Potabilissima, ma che importa? Tanto noi l’acqua da bere la compriamo al supermercato perché quella comunale è piena di calcio e non fa bene. L’acqua sprecata. Acqua liscia, gassata o Ferrarelle. Acqua fruttata, con troppo sodio o oligominerale. Acqua da esposizione, in ampolle colorate e dal design sopraffino. È questa la proposta dell’ultimo ritrovato della moda e dello sperpero: il water shop, dove il valore aggiunto non è più nella pura merce ma nel suo trattamento e nell’uso che se ne deve fare. Che superficialità pensare che l’acqua si possa solo bere: un regalo originale a chi possiede già tutto diventa distintivo di creatività. E chissà che questo mercato non sia stato partorito da menti più esperte, in fatto di speculazioni, di quelle dei nuovi piccoli imprenditori. Basti pensare all’acqua di Lourdes, venduta in piccole madonnine di plastica con la promessa di guarigioni pret-a-porter. L’acqua-business. In fondo che cos’è l’acqua se la maggior parte di noi è dell’idea che per idratarsi serva una crema?

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