sabato 18 aprile 2009

Assalto ai giornalisti, altro che giornalisti d'assalto!

Che noia il giornalismo italiano e questi sedicenti giornalisti muniti di tesserino e di microfono che, non avendo altre novità poiché la terra ha smesso di tremare e le case di cadere, si avvicinano alle persone offendendole con domande stupide e prive di ogni comprensione umana per chiedere, per esempio, “come si sente adesso che ha perso tutto?”. Il giornalismo italiano e la sua smania di stare dentro la notizia anche quando la notizia non c’è più, è vecchia. Il giornalismo italiano e la sua inutile capacità di parlare dei problemi in un’unica direzione, quella ovvia della banalità, quella che si apre subito alle polemiche e vede le cose senza angolature. L’informazione italiana diventa subito un reality, un Grande Fratello in cui inevitabilmente si prende la strada del sentimentalismo forzato, delle lacrime analizzate con l’impietosa lente di un teleobiettivo che permette uno zoom ravvicinato pur mantenendo una distanza adeguata o della volgarità dello sguardo dell’occhio che scruta dal buco della serratura la vita altrui. Poi arriva un laureato in Lettere che sembra non aver fatto grandi master sulla comunicazione, che fa l’inviato di una trasmissione che si classifica “di intrattenimento”, vestito di nero e con gli occhiali scuri ed ecco che ti tira fuori un servizio che meriterebbe il Pulitzer per la creatività e l’arguzia con cui affronta un problema che da giorni si sviscera sempre nello stesso modo. Parlo di Enrico Lucci e del servizio che è andato in onda ieri a Le Iene sui terremotati abruzzesi accampati da giorni nelle tendopoli della protezione civile. Lucci non è andato a cercare quello che è sotto gli occhi di tutti ma si è avvicinato con garbo a delle persone, e dico persone non personaggi da reality, che –indovinate un po’- hanno riorganizzato la loro vita senza abbattersi come vogliono farci credere un po’ tutti i mezzobusti italiani. E sapete che cosa ha scoperto questo giornalista non professionista? Ha scoperto che questi terremotati sono felici nonostante tutto, che il terremoto li ha cambiati, che ha mostrato loro la gioia di vivere di nuovo in mezzo a una comunità, di sentirsi vicini l’un l’altro perché accomunati da un dolore, senz’altro, ma anche e soprattutto perché non si è più separati da muri fisici e mentali. Il terremoto ha distrutto i muri che dividevano le case e ha ricondotto le persone fuori dai loro gusci e sapete che è successo? Che le persone hanno ricominciato a parlare fra loro, i bambini giocano a calcio per strada, i giovani si scambiano idee guardandosi negli occhi e nessuno sente nostalgia del televisore o di Facebook o della Playstation. Sorprendente, no? E sapete la paura più grande qual è? Quella di tornare indietro, una volta ricostruita la città, di isolarsi nuovamente ognuno dietro la propria solitudine e il proprio muro.
Ah, c’è un’altra bella scoperta che non è venuta in mente a nessun giornalista professionista: nessuna delle persone che ha perso la casa ha più paura degli stranieri, della criminalità cittadina, della droga e non solo per l’ovvia ragione che non c’è più nulla da perdere, ma invece perché quello che si è guadagnato è la rassicurante certezza di non essere più soli.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Parole sante.

Marla

Vilipendio ha detto...

Quella tua analisi ottica sui modi comunicativi di defòl, dico quella dei Grandi Parenti e giù di lì, è proprio vera. Vera concisa e quindi (otticamente) illuminante.

Aggiungerei che un/una tizio/tizia che si ritrova in mano un microfono e alle spalle una frequenza televisiva, e con esse s'insinua dal finestrino di una macchina nella privacy di una famiglia testè terremotata nel telegiornale chiedendo "come mai passate la notte qui", meriterebbe di tornare al suo infernale liceo di lecchione (neologismo per 'lecchino + secchione') e di essere preso a cancellinate violente sulle iridi a ogni cambio dell'ora.

Niky Rocks ha detto...

cin cin