venerdì 17 novembre 2006

Groupie: la parte peggiore del rock


Ammetto che ci vuole poco per farmi annebbiare l’intelletto, basta una Pamela Des Barres che racconta di come un giorno, scavalcando un cancello, si ritrova davanti (il mio amato) Jim Morrison con pantaloni di pelle slacciati e torso nudo davanti a un frigorifero mentre canticchia una delle sue canzoni, e sono completamente rapita: per me quella donna è dio.
Poi dopo una notte passata a rifletterci su con visioni boccaccesche e quant’altro venga in mente pensando ai baccanali post concerto delle grandi star dei magici 60’s, la Des Barres si è lievemente ridimensionata.
Nella vita si può scegliere se brillare di luce propria o accontentarsi del riflesso, ma se ti illumini di riflesso, perché il mondo ti deve celebrare?
Le groupie nascono in un’epoca che aveva alle spalle il mondo bigotto e rigido degli anni Cinquanta che tutto il movimento di quegli anni ha sconvolto e trasformato. Ma le groupie non hanno fatto nulla per sovvertire l’ordine e sebbene si proponessero come antagoniste del modello di casalinga perfetta che costringeva fino ad allora le donne in un ruolo decisamente maschilista, le groupie non sono state di alcun aiuto nella battaglia femminista continuando invece a rafforzare l’idea che un uomo, a patto che fosse famoso, potesse servirsi della donna per ogni capriccio.
La Des Barres vanta fra le sue conoscenze anche Keith Moon: brutto, alcolizzato, pazzo, ignorante e grezzo batterista degli Who, un genio, chi dice il contrario è folle, ma pur sempre un animale che non avrebbe trovato una donna se fosse rimasto lontano dai riflettori e dalla storia del rock. Non ho niente contro Keith Moon, solo che mi serve un esempio e lui è perfetto.
Nel libro che ieri la quasi sessantenne ex groupie ha presentato al Fonclea di Roma, racconta che quando vide Paul Mc Cathney dalla finestra di una casa, lei ne rimase stregata e, ancora quindicenne, prese la via del Sunset Strip e del Rock’n’Roll. Nelle persone normali la passione per un genere di musica scatta nel momento in cui una musica comincia a parlarti con note, accordi e ideologie. Nella mente di un folle non è la musica a parlare ma il successo, la fama e la divinizzazione che prendono forma umana in persone che per motivi non spesso troppo validi diventano leggende. Ecco allora che il folle abbandona tutto, compresa la sua dignità, per seguire quelle luci fatue dei riflettori e diventare un fan, ma un fan della popolarità, non della musica.
Ora c’è da dire che se qualcuno cominciasse a raccontare anche solo che Robert Plant faceva colazione nel bar sotto casa e che lo incontrava ogni mattina senza dirgli niente, potrebbe avere qualcosa di interessante comunque, fosse solo in qualità di testimone di un’epoca. E che la Des Barres raccontando di come si prostituisse (perché in fondo è di questo che parliamo) fra batteristi e bassisti che oggi sono autentici miti, mi incuriosisca di più di una qualunque idiota che si vede sgambettare in TV solo perché l’ha data a Briatore. Insomma il successo del libro “Io sto con la band” è abbastanza prevedibile in un paese in cui fra i best seller si annovera la confessione di Veronica Lario e della sua triste vita con noisappiamobenechi.
Certo è che le groupie vendendo anima e corpo ai loro e nostri idoli, non hanno fatto altro che ingigantirne l’ego e trasformare la scena musicale in un dorato mondo tanto ambito in cui basta avere un nome per sentirsi su una vetta.
Il fanatismo, lo sappiamo bene, porta brutte conseguenze.

2 commenti:

ghettoculturale ha detto...

insomma, come svendere una semplice ninfomania spacciandola per qualcosa d'altro; anche se precismante non si sa cosa.

Niky Rocks ha detto...

E' anche vero che a quei tempi e a quelle condizioni il mestiere più antico del mondo era 'na vera pacchia.