mercoledì 18 luglio 2007

IL momento giusto al momento sbagliato 4

L’ultimo anno di università era decisamente diverso dal primo. Avevo scoperto che molti di quelli che avevano interessi tanto eccentrici in verità potevano campeggiare quanto volevano fra i libri, perché con o senza laurea il loro futuro era già scritto: la fabbrichetta del papy. Così, smaliziata e annoiata da tanta ipocrisia, mi andai a cacciare proprio con un tipo di questi. Non che lo sapessi, cioè sì lo sapevo, ma chiaramente lui era diverso: lui si ribellava al padre, lui non avrebbe fatto la vita che gli altri gli imponevano, lui aveva una Harley e per questo era un ribelle. Era Dylan, sì insomma non Bob, ma McKay, quello di BeverlyHills, il telefilm. Viveva da solo perché i suoi gli avevano comprato una casa a Roma per permettere al pargolo di frequentare l’università senza dover prendere ogni mattina il treno, che poi dalla Puglia sarebbe stata davvero dura, ogni mattina. Una casa senza parentado era un’esperienza nuova per me che mi dilettavo in sperimentazioni culinarie e pomeriggi di stravaccamento televisivo. Era il classico studente-fuori-sede e io assaporavo il gusto di una casa sempre piena di gente e per la prima volta mi faceva piacere condividere gli amici. Credo di aver visto più concerti in quel periodo che in tutta la mia vita. Si rideva sempre, ci si incazzava anche, ma alla fine è stato un periodo meraviglioso. Poi è diventato un periodo troppo meraviglioso, un paradiso artificiale fatto di divertimenti e leggerezze, di musica e alterazioni, di pomeriggi senza peso e senza conseguenze. Insomma superati i sedici anni da un pezzetto, io sentivo il bisogno di pagare qualche conseguenza e per me non era giusto vivere con le spalle protette, anche perché io davvero non avevo nessun tipo di protezione. Così spiegai al mio Dylan McKay l’importanza di fare delle scelte e di prendersene la responsabilità. Gli dissi che se da tre anni non aveva dato nemmeno un esame, in fondo avrebbe potuto trovarsi un’altra occupazione, che ne so, magari il barman, tanto nessun barman di Roma sa fare veramente i cocktail. Lui mi sorrise e mi chiese se per caso fossi diventata pazza. Poi salì sulla sua Harley e si allontanò con un gran fragore verso il tramonto. Per me la scena è rimasta questa anche se in verità stavamo sotto casa mia dove non si vede nemmeno il sole, lui era venuto in macchina e io ho chiuso il cancello prima che lui fosse riuscito a girare l’angolo per via del traffico. Non ebbi più sue notizie fino al giorno in cui mi arrivò una mail in cui mi informava che era tornato nella sua città e che adesso stava lavorando dal padre perché in fondo giurisprudenza non gli era mai piaciuta. Guadagnava abbastanza per andarsene ogni week-end ovunque in Europa facessero feste e poi tornava sempre in tempo per essere lucido il lunedì in ufficio. Nel post scriptum aggiungeva di aver venduto l’Harley per una moto meno veloce.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Scrivi molto molto bene! E' un piacere leggere!